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Comune di Sciacca

Commenti. Sciacca, Città per parti. Il Restauro, la Conservazione e il Riuso (coraggioso) dei beni antichi e storico-artistici. A cura dell’arch. Paolo Ferrara

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Nuovo appuntamento, sul nostro sito, con l’analisi storica e paesaggistica del territorio di Sciacca da parte dell’arch. Paolo Ferrara. 

Nel precedente intervento “Città per parti. Il Nucleo Antico” https://www.risoluto.it/cultura/commenti-sciacca-citta-parti-1-nucleo-antico-cura-dellarchitetto-paolo-ferrara/  si evidenziava l’importanza del “tessuto edilizio minore”, formato da tutti quegli edifici che grazie alla loro tipologia, al modo di relazionarsi spazialmente tra loro e all’uso di determinati elementi di finitura, pur nella loro semplicità di basica fattura determinano un chiaro “carattere locale”, formatosi nel tempo sino a rappresentare l’identità culturale nella storia della città in cui sorgono. Caratteristica peculiare del Nucleo Antico delle città è dunque l’eterogeneità degli edifici e degli spazi aperti che lo compongono (vicoli, cortili, scalinate, etc.), cioè la presenza di architetture diverse per fattura, valori, dimensioni, rapporti volumetrici, etc. Ciò vale per tutte quelle città che nell’arco della loro storia hanno tratto profitto dall’innovazione determinata dallo sviluppo socio-economico e/o religioso, potendo così vantare più “testi” antichi e/o storico-artistici, testimoni di gran parte della loro storia e che rendono ciascuna di esse “documento” unico. Oltre al citato “tessuto edilizio minore”, tra i “testi-documenti” ci sono anche quelle costruzioni comunemente identificate quali “monumenti”. Un sostantivo sino a pochi decenni fa attribuito solo a quegli elementi urbani che, essendo espressione di alto profilo dell’opera dell’uomo, erano depositari di valori storico/artistici. Un atteggiamento culturale lungamente dominante, che è radicalmente cambiato nel tempo  così da estendere il concetto di monumento/documento anche al “tessuto edilizio minore” e poi, più recentemente, alle “emergenze del paesaggio naturale e della paesaggistica”. Per meglio comprendere, oggi la Coda della volpe e l’agglomerato edilizio marinaro sono “monumento” tanto quanto lo sono il Castello Luna e la Chiesa Madre.  Considerando dunque che “monumento” è termine oramai abbastanza ampio, trattando degli edifici che testimoniano la storia e l’arte della città antecedentemente al secolo XX, li definiremo “architetture antiche di valenza storica e artistica”. E’ qui necessario un breve inciso rispetto i concetti di antico e moderno.

Con esclusione dei suoi primi venti anni, pregni degli influssi dell’Art Nouveau (in Italia, dai neofiti, meglio conosciuta quale “Stile Liberty”, denominazione riduttiva derivante dal nome del commerciante Arthur Liberty), il XX secolo comunemente non è considerato portatore di architetture storico/artistiche. Ciò semplicemente perché è identificato con le costruzioni in cemento armato, con quell’architettura moderna che, scevra dei caratteri stilistici “classici” propri dell’architettura antica (colonne, capitelli, archi, trabeazioni, ornamenti, etc.) e secondo una distorta concezione di ciò che è “arte”, non può essere portatrice di valori storico/artistici. Si tratta di un sillogismo da cui nasce un atteggiamento talmente debole culturalmente da creare la dicotomia tra “antico” e “moderno”, estremizzata soprattutto dal secondo dopoguerra in poi quando si pose il problema di “come” ricostruire le parti di città distrutte, soprattutto quelle cosiddette “d’arte”. In realtà, pur usando gli stessi elementi, qualunque creazione architettonica tramite il proprio linguaggio è espressione di concetti assolutamente diversi. I Greci, la cui architettura è considerata quella “classica” per eccellenza, non conoscevano l’arco e la volta, invenzioni tipicamente Romane che cambiano completamente la percezione degli spazi architettonici; non è vero che il Gotico s’identifica con l’arco acuto, che nasce prima, con il Romanico; Borromini e Bernini non hanno mai saputo cosa s’intendesse con il termine Barocco perché è terminologia usata posteriormente alle loro opere per classificare negativamente tutto ciò che venne dopo il Rinascimento; il Neoclassicismo non ha nulla a che vedere con  le meraviglie di Palladio ma, semplicemente, le riduce a caricature; F.Ll. Wright, nella sua Casa sulla cascata del 1936, capolavoro dell’architettura moderna, usa tanto la pietra quanto il cemento armato, senza alcun preconcetto; molte architetture in cemento armato sono assolutamente “classiche” e per nulla “moderne” perché sono simmetriche, proporzionate, composte da elementi ripetitivi. In sintesi, la semplicistica classificazione in “antica”, “classica” o “moderna” dell’architettura rispetto agli elementi in essa usati ha creato solo puro e mediocre nozionismo.

Torniamo al tema. Gli edifici antichi di valenza storica e artistica sono quegli elementi urbani che testimoniano e raccontano la magna pars della storia della città, quella che ha segnato i momenti di massimo sviluppo sia della sua struttura sociale, in termini economici e della gestione politico-amministrativa, sia di quella religiosa. Si tratta di un insieme di “testi – documenti” per mezzo dei quali è possibile conoscere i momenti di splendore e quelli di crisi della città e che, come scrive il sociologo e urbanista Lewis Mumford nella parte introduttiva del suo testo “La città nella storia”, richiedono la massima attenzione per “comprendere la natura storica della città e distinguere tra le sue funzioni originarie, quelle che ne sono emerse in un secondo tempo e quelle che ancora potrebbero sgorgarne in avvenire”. La città ha dunque “natura storica”. Quella di Sciacca è millenaria, testimoniata in forma di reperti archeologici, d’infrastrutture e di edifici. Ha “natura storica” di grandissimo pregio perché è sempre stata luogo fisiologico a un sistema territoriale più ampio, che andava oltre i limiti fisici dello specifico stanziamento urbano; basti ricordala quale luogo delle Terme Selinuntine o quale Stazione postale ai tempi dell’Impero Romano. Tutto ciò, considerando la vasta portata culturale che sottintende, obbliga a una riflessione: qual è lo stato di questi “testi – documenti”? Che tipo d’interventi sono attuati per tutelarli? Il tema della “tutela” dei beni storici e artistici è certamente articolato e, per comprenderlo appieno necessario partire da un fatto incontestabile: un documento cartaceo (di qualsiasi natura, da un certificato di stato civile a un manoscritto di Pirandello) ha valore solo se non è falsificato; tale condizione dovrebbe essere implicita anche per i documenti architettonici (e quelli artistici in generale) ma, purtroppo, la cosa non è per nulla scontata. Ciò vale un po’ dappertutto. Anche a Sciacca, al momento d’intervenirvi, la maggior parte degli edifici storico/artistici non è sempre stata trattata in modo ortodosso. E’ raro che un edifico antico di valenza storica e artistica sia stato oggetto di un vero e proprio intervento di Restauro conservativo, metodologia orientata a mantenere le tracce della storia sulla fabbrica, a conservare il documento nello stato in cui ci è arrivato, senza inserirvi alcuna integrazione o, peggio ancora, rifare quelle parti che non esistono più. Per esemplificare: se per ripristinare l’integrità dell’opera (intesa quale il suo stato finale al momento della conclusione dell’edificazione) le bugne mancanti nel Palazzo Steripinto fossero integrate camuffandole con le originali, si creerebbe un falso storico e materico. Invero, l’integrità dell’opera non ha valenza se non per la netta differenziazione tra la parte integrata e la parte originale; ciò presuppone che, se proprio si dovesse integrare, la parte mancante debba essere nettamente distinguibile da ciò che già esiste. Difatti, il valore testimoniale dell’edificio non è solo quello che emerge dalla sua struttura originaria (forma, dimensioni, tipologia, etc.) ma è dato anche dalle contaminazioni della storia, la cui cancellazione va a danno della perdita del valore storico/artistico. Il caso delle “facciate” è emblematico: sono spesso considerate alla stregua di quelle di un comunissimo palazzo condominiale senza alcun valore ma che abbisogna d’intervento manutentivo. Va da sé che sia attuata una metodologia di restauro oramai ampiamente superata da decenni, tendente a ripristinare il suddetto presunto stato originario dell’opera, come se il tempo non fosse mai passato. Persino il Palazzo del Comune ha subito una sorta di risanamento/restauro tramite il ripristino del presumibile stato originario delle parti intonacate. Antecedentemente all’intervento la sua facciata portava in sé il tempo della storia poi totalmente annullato da quella che possiamo definire un’operazione prettamente estetica. Osservando il Palazzo dall’esterno per poi entrare nell’invaso di uno dei suoi due spazi aperti (atrio inferiore e chiostro superiore), la differenza è netta: all’esterno abbiamo a che fare con una copertina patinata, perfezione della finitura ex novo tendente a proporre la “suggestione retrospettiva o mimetica” dell’opera (così come la definisce il teorico e studioso  del Restauro Giovanni Carbonara); all’interno possiamo invece leggere ciò che la storia ha scritto. Chiaro che l’approccio concettuale della Conservazione non giustifica l’assoluta trascuratezza che, a tutt’oggi, connota le parti interne del Palazzo Comunale, sin quasi al loro degrado. L’eventuale (e auspicabile) intervento da attuarvi dovrà evitare la semplice stesura d’intonaco di calce nelle parti neutre tra colonne, cornicioni, paraste e archi: si finirebbe per uniformarlo ai tanti altri edifici di Sciacca che hanno “subito” questa metodologia di restauro. Al contrario, è necessario mantenere l’unico dato che può attestare l’autenticità dell’opera: quello materico. E l’unica metodologia da applicare dovrà essere quella del Restauro conservativo così da mantenere la “patina del tempo”, che è “storia” e che non va confusa con la mancata manutenzione, che è “degrado”. Il Restauro ha spesso prodotto feticci, tanto quanto hanno fatto alcune operazioni di restyling di luoghi o edifici. Un esempio si ha in quello che è un indubbio testo-documento della storia di Sciacca: Piazza Scandaliato. Ci riferiamo agli antichi pilastrini cui era infissa la ringhiera, sostituiti, durante gli interventi di alcuni anni fa, con altri nuovi di zecca che ai preesistenti facevano il verso riprendendone la sagoma e il disegno, ma senza averne la “storia”. Insomma, siamo difronte a veri e propri feticci poiché “copie” senza alcun valore e, soprattutto, senza alcun coraggio: se si sostituisce un elemento cui non si dà alcun valore (e sennò quale altro motivo ci sarebbe per doverli sostituire?), non ha alcun senso farlo con delle copie; molto più incisivo sarebbe stato progettare ex novo pilastrini che denunciassero chiaramente la loro modernità. Si tratta di un perfetto caso di perdita parziale del dato materiale del “documento Piazza Scandaliato” e della sua conseguente falsificazione poiché è stato sottratto un elemento che ne formava la storiaE falsificare la storia è incredibilmente desolante. La modifica o, ancora peggio, la distruzione delle tracce che essa ha materialmente lasciato sul testo/documento inficia il valore di quest’ultimo. L’autenticità della materia è data anche dal segno della sua consunzione fisica, che è testimonianza del tempo, patina storica della fabbrica che, se sottratta, le fa perdere di autorità (autentikos: avere autorità) e, con essa, la propria, vera, identità. Salvaguardare le tracce materiali è imprescindibile poiché sono esse a conferire all’oggetto il valore di unicità, che è uno dei parametri base a determinare ciò che è opera d’arte e/o storica. Se quello dei pilastrini è una falsificazione del documento per “sottrazione”, vi sono casi in cui il documento è falsificato da interventi per “aggiunta/ripristino”.

Ne è esempio il complesso dell’ex Ospedale Santa Margherita (Via Incisa), in cui una finta finestra è stata integrata sulla facciata durante le opere di restauro. Si tratta della prima che, arrivando da P.zza Rossi/Vicolo Cavalleggeri, incontriamo sulla facciata verso Via Incisa, posta in corrispondenza della grande apertura che, antecedentemente al restauro, consentiva l’ingresso a un locale posto al piano terreno (a memoria, un ex autolavaggio). Una volta ripristinata la mancante porzione dell’ambito murario, si è pensato di procedere con il “restauro analogico” così da ritornare alla presunta unità formale dell’opera, reinserendovi la finestra ma commettendo un arbitrio sfociante in falso storico e artistico. L’edicola della finestra (la sua cosiddetta cornice) che allo sguardo sembra essere in pietra altro non è che semplice malta, poi dipinta a fare il verso alla pietra tufacea. Insomma, è un elemento in cui non vi è nulla di autentico; piuttosto, per ripristinare la mancante porzione di muro perimetrale si sarebbe dovuto distinguere il materiale ex novo da quello esistente e il ripristino della finestra sarebbe dovuto essere concettuale. Manca il coraggio di essere contemporanei ai tempi e ciò fa emergere la convinzione che il concetto di “tradizione” sia esplicabile solo usando materiali che storicamente la identificano, creando veri e propri pasticci “finto antico”. Interagire con il significato profondo delle tradizioni significa traslarle nella contemporaneità senza alcuna paura ancestrale di distaccarsi dal passato: le tradizioni sono infatti in continuo mutamento e non vi è, né vi può essere, una data in cui si è passati dall’antico al moderno, dalle tradizioni alle innovazioni. Il contemporaneo significato di “tradizione” va inteso quale cambiamento silente e continuo inverato attraverso l’ “innovazione”, che non significa la cancellazione del passato ma la sua partecipazione al futuro. Il riutilizzo delle architetture antiche di valenza storica e artistica può prevedere anche funzioni d’uso diverse da quella originaria, non escludendo a priori -e con coraggio progettuale- l’immissione di elementi contemporanei atti a soddisfarle (un esempio eccellente è quello del Palazzo della Ragione di Milano, autore arch. Marco Dezzi Bardeschi). Importante è anche preservare la stratificazione risultante dal riuso funzionale che nel tempo l’edificio ha accolto (ad esempio, Castel Sant’Angelo a Roma) e che, attenzione, è cosa ben diversa dalle superfetazioni, cioè quelle aggiunte inutili e dannose al documento (si veda la casa addossata al fianco di San Nicolò la Latina).  Trattare i beni portatori dei valori di storicità e artisticità alla stregua di un comunissimo palazzo anni ’70 è un vero e proprio crimine culturale, e ciò vale per tutti gli edifici “monumento”, anche per quelli cosiddetti “moderni”, termine con cui il neofita intende ciò che non segue stilemi classicisti o vernacolari, costruito nell’era del cemento armato e del ferro. La vicenda della pitturazione di alcune porzioni del cemento “faccia-vista” della parte esterna del Teatro Popolare -per quanto sia più ridicola che assurda- è un intervento che cozza contro qualsiasi ragionevole concetto di “restauro del moderno”. Attuato per chissà quale motivo, ha mortificato il concetto di “cemento faccia-vista” alla base della poetica di quest’opera, deturpandola. Si è agito come si faceva un tempo su un qualunque, anonimo edificio al cui piano terra si apriva un negozio: si “allattava” solo la parte di pertinenza, lasciando decrepito il resto.A Sciacca il vero e proprio scempio legalizzato è però stato attuato, più di mezzo secolo fa, sull’edificio forse più importante tra tutti.  Ne trattò persino il Corriere della Sera con un articolo a firma di Cesare Brandi, un nome che probabilmente non dice nulla a chi non è cultore d’arte, di architettura e di restauro. Si tratta di uno dei maggiori studiosi a livello mondiale che, dal secondo dopoguerra, contribuirono alla teorizzazione, diffusione e affermazione della moderna cultura del restauro. Finalmente, si ponevano sullo stesso livello la “specificità dell’opera d’arte” quale “processo creativo” unico e appartenente all’artista che la crea, e l’elemento materico di cui essa è composta (ad esempio, una copia della Pietà di Michelangelo, per quanto assolutamente perfetta, mancherebbe dell’originalità della sua mano ma anche del materiale da lui scolpito, portatore di significati che vanno oltre il tempo). Brandi teorizzava che il restauro dovesse mirare sì al ristabilimento dell’unicità potenziale dell’opera d’arte ma ciò non doveva, in alcun modo, essere raggiunto creando dei falsi artistici e falsi storici tali da cancellare ogni traccia del passaggio del tempo sulla fabbrica. Sciacca, si sa, per volontà di Ferdinando il Cattolico, e tramite il suo Vicerè Ferdinando de Acuña, dalla fine del XV secolo è “Città Degna”, titolo noto anche a Brandi, che il 2 gennaio 1965 così scriveva sul Corriere della Sera che <<[…] la “degna” Città di Sciacca continua a ricevere “indegnità” di nuovo conio e a sopportarne altre che durano oramai da tempo, come se la tutela dei monumenti e delle bellezze panoramiche a Sciacca non avesse valore di legge>>. L’articolo del Brandi trattava della Basilica di Maria SS del Soccorso (allora Chiesa Madre), più precisamente dell’intervento attuato nella sua parte absidale laterale su Via Vittorio Emanuele. Risalente al XII secolo d.C., nel 1965 la parte absidale fu inglobata da quello che Brandi -nel suo articolo- definì “attico”, conferendogli anche l’appellativo di “inedito scempio” poiché, nella sua pur vasta conoscenza di scempiaggini sui monumenti, egli mai si era imbattuto in operazioni distruttive come quella che -rimarcava ironicamente- era nata dall’<<[…]idea di andare a santificarsi abitando al di sopra di una chiesa>>, riferimento per nulla celato all’auto-santificazione del sacerdote della Chiesa Madre, che all’epoca era l’arciprete Bono, insediatosi nel 1963, succedendo a Padre Cusumano. Brandi puntava il dito anche sulla questione legale: <<[…] si potrebbe almeno sperare che questa inammissibile sopraelevazione sia abusiva: si vorrebbe crederlo, ma è molto difficile. La Matrice si trova al centro della città, lungo il fianco sopraelevato corre una delle strade principali: anche a non volerla vedere, è impossibile che non ci cada l’occhio. Il nostro fondato sospetto è che il tutto avvenga in piena regola, con permessi e magari sovvenzioni>>. Tutto molto chiaro: nonostante le leggi sulla tutela fossero in vigore, Brandi si chiedeva come mai fosse stato possibile avallare legalmente quell’assurda operazione. Brandi è scomparso nel 1988, periodo in cui nella Chiesa Madre fu attuato un altro intervento poco ortodosso. In quegli anni la chiesa fu oggetto di lavori di restauro poiché innalzata a Basilica (testimoniandolo con quell’assurda insegna “BASILICA” posta sulla facciata che andrebbe assolutamente rimossa) e, con l’obiettivo di renderla più bella,  la pavimentazione del XIX secolo fu sostituita con una ex novo, concepita su disegno dell’arciprete Don Andrea Falanga al quale, ignorando certamente i concetti del Restauro Conservativo, non si può però imputare la responsabilità dell’intervento, che era della Soprintendenza. Un restauro arbitrario che ha fatto perdere il “dato materiale” proprio della pavimentazione originaria del manufatto, sostituendola con un’altra che non ha nessuno tra i valori che conferiscono pregio a un manufatto: valore di storicità, valore di antichità, valore di artisticità. La pavimentazione preesistente non era forse di fattura artistica ma certamente aveva in sé il valore di antichità. E se è vero che la processione della Madonna del Soccorso è evento assolutamente storico per Sciacca, considerando che in oltre cento anni sulla pavimentazione del XIX secolo avevano posato i loro nudi piedi migliaia di marinai e migliaia di fedeli, ecco che essa aveva in sé anche il valore di storicità. Gli esempi citati non vogliono essere denigranti bensì da stimolo affinché cresca sempre più la consapevolezza che la nuova dimensione di “città turistica” impone che Sciacca attui una seria tutela al proprio patrimonio antico/storico/artistico/paesaggistico, che è la più importante realtà che abbiamo, cui è indispensabile mettere mano affinché la città torni a essere “Degna”. La nuova amministrazione dovrebbe immediatamente formare una squadra di esperti che possa censire tutte le architetture e gli ambiti paesaggistici che necessitano d’interventi di risanamento e/o riuso, anche con l’immissione di funzioni d’uso ex novo. A ciò dovrà seguire la volontà di lavorare in sinergia con gli Enti proprietari dei beni pubblici e con la Soprintendenza, pianificando le priorità d’intervento su quelli che ne hanno assoluta necessità, e non solo per le loro facciate. I restauri che rimettono a nuovo le facciate lasciando gli spazi interni incompleti e inutilizzati sono dannosi e inutilmente dispendiosi. Il già citato Complesso dell’ex Ospedale Santa Margherita ne è triste esempio: una “scenografia” su Via Incisa oltre la quale non c’è niente di finito e utilizzabile, sino all’abbandono. Restaurare senza riusare è operazione assolutamente inutile. Restaurare per riusare è operazione culturalmente di valore. L’unica possibile e “degna”. La valorizzazione dei beni non è contemplazione degli esterni bensì fruizione delle funzioni interne. Il Complesso dell’ex convento San Francesco è un ottimo esempio delle potenzialità che la città ha saputo rendere proficue, così come lo sono il Complesso Fazello e il Complesso della Badia Grande. Si potrebbe fare di più, anche su quei “monumenti” considerati intoccabili. Il Castello Luna è un rudere poiché non vi è più spazio interno (la parte dei locali in cui si viveva) e la sua fruibilità è, francamente, poca cosa. Sarebbe una grande opportunità da sfruttare per destinarvi l’inserimento di nuova architettura, che potrebbe essere semplicemente un giardino pubblico con servizi culturali annessi. Non ci sono nel mondo molti giardini pubblici all’interno dell’ambito murario di un castello. Un giardino tematico dedicato, ad esempio, alla storia del “Caso di Sciacca”. O tante altre cose. “Una piccola oasi del bello, una gentile epifania dell’anima”: così Brandi definiva Sciacca nel 1965. Può tornare a esserlo solo con l’impegno di tutti.

 

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