Con Husky, il giovane regista menfitano Vito Mistretta porta sullo schermo uno dei passaggi più delicati della storia siciliana: lo sbarco alleato del 1943, conosciuto come Operazione Husky. Ma il suo cortometraggio non è un racconto di guerra tradizionale, fatto di cronache militari e strategie belliche. È piuttosto un viaggio intimo e umano, visto attraverso gli occhi di un fotoreporter e di un soldato americano, paracadutati all’alba in una Sicilia arcaica e sospesa nel tempo.
Il cuore della narrazione si accende nell’incontro con un contadino e suo figlio, figure che trasformano la vicenda in un dialogo tra culture, lingue e memorie. Qui si svela il tema centrale dell’opera: la guerra non come impresa eroica, ma come sfondo di un’umanità fragile, capace di resistere e di lasciare tracce di sé.
Non è un caso che il protagonista sia Robert Capa, il celebre fotografo di guerra. La sua macchina fotografica diventa metafora di testimonianza e memoria, strumento con cui fissare per sempre attimi di vita nel caos della violenza.
Girato interamente in Sicilia, Husky si muove tra campagne polverose, ruderi abbandonati e paesaggi senza tempo. Le location scelte – dal Tempio di Segesta ai Ruderi di Poggioreale, dall’Eremo di Santa Rosalia alla Quisquina fino al baglio di Perricone a Burgio – non sono semplici sfondi, ma luoghi che restituiscono la sensazione di trovarsi davanti a un ricordo collettivo che riaffiora.
Il cortometraggio non si limita a rievocare un episodio storico: riflette sul rapporto tra memoria e immagine, tra verità e rappresentazione. In questa prospettiva, Mistretta restituisce alla Sicilia non solo il suo ruolo di teatro bellico, ma anche quello di custode di storie dimenticate.