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Le motivazioni della sentenza di assoluzione della dirigente Maffey dall’accusa di atti persecutori nei confronti di 3 insegnanti e 2 assistenti della scuola

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Per la quarta sezione della Corte di Appello di Palermo, che ha depositato le motivazioni della sentenza di assoluzione per Evelina Maffey, ex dirigente del secondo circolo didattico di Sciacca, dall’accusa di maltrattamenti nei confronti di tre insegnanti e due assistenti amministrativi della scuola, “la vicenda in esame non ha in alcun modo assunto quella portata che era stata rappresentata più in generale da tutte le persone offese”.

La Maffey era stata condannata in primo grado dal Tribunale di Sciacca a un anno e quattro mesi di reclusione e al risarcimento dei danni alle parti civili costituite soltanto per una delle cinque che si sono costituite parte civile. Per le altre il giudice di Sciacca aveva dichiarato il non doversi procedere perché il reato è estinto per intervenuta prescrizione.

La quarta sezione della Corte di appello di Palermo, accogliendo integralmente l’appello proposto dall’avvocato Gioacchino Genchi, ha riformato la sentenza di primo grado ed ha assolto l’imputata da tutti i reati alla stessa contestati “perché il fatto non sussiste”, revocando per l’effetto tutte le statuizioni risarcitorie previste nella sentenza di primo grado, pronunciata alla fine di un processo durato oltre cinque anni.

Nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, i giudici evidenziano che “per la maggior parte delle condotte asseritamente vessatorie riferite o non vi era stato un riscontro o non era stata raggiunta la prova del loro carattere vessatorio”.

In particolare, in tre singole occasioni in cui la preside si sarebbe limitata ad invitare alcuni dipendenti a non rivolgere la parola a un assistente amministrativo, la Corte scrive: “Solo ciò, all’evidenza, non può tuttavia consentire di apprezzare adeguatamente la concreta portata penalistica di tali condotte, si ribadisce le uniche rimaste dimostrate all’esito di una lunga e complessa istruttoria dibattimentale, non potendosi esse prestarsi a disvelare un’abitualità vessatoria sorretta da volontà sopraffattrice e da una intenzionalità persecutoria”. 

“L’evidenza constatativa dell’innocenza dell’imputata è, dunque, ricavabile dagli atti processuali – conclude la Corte –  conseguendone pertanto la necessità di dovere emettere nei riguardi della stessa una pronuncia assolutoria per insussistenza del fatto, con conseguente revoca delle statuizioni civili”.

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